3 Ottobre 2011 - Bissau, Cumura e Bor

 

 

 

"Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio."

 

 

 

La camera della Curia di Bissau dove ho tracorso le prime due notti
La camera della Curia di Bissau dove ho tracorso le prime due notti

 

Il fuso orario, indietro di 2 ore rispetto all’Italia, fa sì che svegliarmi per essere puntuale alla colazione delle 8, nonostante ieri sera sia andato a letto verso le 3, non mi costi troppa fatica. In fondo le 8 di Bissau sarebbero le 10 italiane. In bagno però scopro che la zanzariera ha un buco piuttosto grosso rattoppato alla bell’e meglio con un fazzoletto di carta. Meno male che me ne sono accorto solo al mattino, altrimenti non so come avrei dormito con il pensiero di quel buco! In Guinea Bissau infatti c’è la malaria che è trasmessa dalle zanzare anofele, in azione di sera. Nonostante prenda il Malarone e abbia scorte industriali di Autan, confesso che, soprattutto i primi giorni, sono un po’ paranoico sull’argomento. In realtà con alcuni piccoli accorgimenti si può stare abbastanza tranquilli ma un buco rattoppato con un fazzoletto di carta non è un accorgimento rassicurante!

 

Rattoppo della zanzariera con un fazzoletto di carta!
Rattoppo della zanzariera con un fazzoletto di carta!

 

Puntuale alle 8 sono in refettorio dove conosco il Vescovo di Bissau, Don Josè Cammate, il Vescovo vicario che verrà ordinato però solo il prossimo 12 novembre, Don Josè pure lui, e Padre Domingos Ca, Vicario generale. Don Josè Cammate, guineano, è il secondo vescovo della diocesi di Bissau, istituita nel 1977 da Papa Paolo VI, ed è succeduto a Mons. Settimio Ferrazzetta, italiano, morto nel 1999. Inoltre conosco Giusy, una signora di Foggia che ha seguito Don Ivo in Guinea e svolge la sua missione a Bissau.


Arriva anche Iolanda, una delle cameriere. Saluta tutti con un bacio, pure me che ci siamo appena conosciuti. In realtà il bacio come saluto non è nella cultura africana. Mi bacia perché sa che è il modo di salutarsi in Italia. In Africa invece si tende a non mostrare i propri sentimenti in pubblico. Una mamma per esempio non bacia il suo bambino perché gli spiriti maligni potrebbero ingelosirsi e fargli del male. Quindi quel bacio è un segno di grande accoglienza in Guinea Bissau.

 

Durante la colazione capita il discorso su un bambino appena nato all’ospedale di Cumura. La madre è morta durante il parto ma nessuno sta venendo a richiedere il bambino. Anche perché, se la madre è morta, vuol dire che quel bambino porta male. Chissà però qual era la storia di quella madre giunta da sola all’ospedale.

 

Normalmente in Guinea Bissau il concetto di famiglia è più esteso di quello occidentale. I bambini spesso, per varie ragioni, sono affidati ai familiari, come le zie per esempio. Si parla allora di figli di cruison, di educazione, ovvero i figli che vengono affidati ad altri membri della famiglia anziché ai genitori. Ma la differenza tra il figlio figlio e il figlio di cruison è molto labile, per non dire che non esiste nella cultura africana. I Guineani dicono genericamente “questo è mio figlio” e non si curano della differenza tra figlio e nipote. Noi invece diremmo “questo è mio figlio” e “questo è mio nipote”.

 

Lo stesso vale per il possesso delle cose. Se in Guina Bissau io possiedo una casa, in realtà la casa è di tutta la famiglia. Per esempio Don Ivo mi racconta che una volta ha incontrato un suo parrocchiano a Bissau e nel discorso gli ha indicato casa sua.

 

“Don Ivo questa è casa mia.”

“Scusa ma non abiti a Bigene?”

“ Sì, ma questa è casa di mio padre.”

“Ma non è morto l’anno scorso tuo padre?”

“ Sì è vero.”

“Come è possibile allora che sia la casa di tuo padre?”

“E’ la casa del fratello di mio padre.”

 

Insomma la famiglia è veramente un ombrello, un “clan” di cui si fa parte e che ti protegge, ma a volte può anche imporre dei vincoli, degli obblighi a cui è difficile sottrarsi. Invece il ruolo della famiglia in senso stretto, all’occidentale, il ruolo di padre e madre, almeno rispetto a come lo intendiamo noi, è un ruolo più marginale e meno responsabilizzato nei confronti dei figli. Soprattutto il padre. Avrò occasione più volte di confrontarmi con questa differenza culturale nei prossimi giorni.

 

La curia di Bissau. Notare gli edifici rialzati per evitare che i serpenti entrino dentro.
La curia di Bissau. Notare gli edifici rialzati per evitare che i serpenti entrino dentro.

Ospedale di Cumura a clinica di Bor

 

Dopo colazione inizia veramente il mio viaggio. Andiamo all’ospedale di Cumura. La strada è una striscia di asfalto rabberciata e sgretolata ai bordi, appoggiata sul terreno rosso acceso che colora asfalto, auto, muri, piedi: ogni cosa. Le macchine private sono rare. Per lo più si vedono correre i taxi blu e bianchi dismessi nel vicino Gambia ma ancora buoni per la Guinea Bissau. E i toka toka, pulmini che svolgono anch’essi un servizio taxi ma da cui sali e scendi con un semplice tocco alla portiera. Toka toka. Anche i taxi non sono in realtà esclusivi: finché c’è posto si sale.

 

Ai bordi della strada, a piedi o in bici, tantissime persone, per lo più giovani. C’è chi cammina diretto in qualche luogo, qualcuno invece sembra fermo ad aspettare non si sa che cosa. Molti hanno un banchetto, un chiosco o una semplice tovaglia dove vendono non capisci bene cosa. Fondamentalmente quel che hanno recuperato in qualche modo il giorno prima. Ma anche i negozi lungo questa strada non sono altro che piccole casupole, baracche o container riadattati dove vendono esattamente le stesse cianfrusaglie dei banchetti: scatolame di ogni genere, cibo, uova, benzina in bottiglia e… divani. Ne ho visti così tanti che penso sia arrivato di recente qualche carico con una nave. In mezzo a tanta gente ho visto anche capre e maiali pascolare liberamente per la strada. Dietro i negozi ci sono le case-capanne: quadrate, basse, su un piano, costruite con i mattoni di fango ed il tetto di paglia o in lamiera per i più ricchi. Certamente nulla a che fare con il nostro concetto minimo di casa.

 

La strada dalla Curia agli ospedali di Cumura e Bor
La strada dalla Curia agli ospedali di Cumura e Bor

 

Ogni tanto ci sono dei canali: pezzi di un vecchio sistema fognario oramai abbandonato dove scorre di tutto e rabbrividisci quando vedi giocarci i ragazzini. Oppure li vedi giocare a calcio in uno spiazzo lasciato libero dalle case ma non dalle pozzanghere.  E se non giocano corrono per la strada che possono attraversare senza nessun preavviso. Gli incidenti mortali sono frequenti lungo queste strade dove le macchine sono ancora un’eccezione.


Dietro questa striscia di auto, di commercio, di vita brulicante, colorata e rosso polverosa, di piccoli animali liberi di scorrazzare e di qualche casa, si vedono gli alberi verde smeraldo della foresta. Sono nella periferia della capitale ma sento fortemente di essere in Africa.

 

Non posso fare foto perché la polizia ti fermerebbe chiedendo perché stai fotografando e soprattutto perché le foto non sono in genere gradite se fatte da estranei. Prima ti presenti, chiedi il permesso e poi eventualmente scatti. Insomma non è assolutamente il caso di fare foto a Bissau se non si vogliono problemi.

 

Abbandoniamo la striscia di asfalto e deviamo su una strada laterale, sterrata, come la maggior parte delle strade in Guinea Bissau e anche nella capitale, fiancheggiata da un bosco di alberi bassi che fanno ombra a enormi termitai. Siamo arrivati.

 

L’ospedale di Cumura fu fondato nel 1974 da Mons. Ferrazzetta, originario di Verona, francescano, oggi in via di beatificazione. Mons. Ferrazzetta è stato il primo missionario giunto in Guinea Bissau nel 1955 e che ha condiviso con i guineani le sofferenze del colonialismo e delle guerre, prima di indipendenza e poi civili. L’ospedale di Cumura, assieme alla clinica pediatrica di Bor che visiterò più tardi,  sono il segno più tangibile e visibile a tutti di cosa fa la Chiesa Cattolica in Guinea Bissau.

 

Ospedale di Cumura. La lapide in ricordo di Mons. Ferrazzetta.
Ospedale di Cumura. La lapide in ricordo di Mons. Ferrazzetta.

 

E’ impressionante come il dolore e l’amore possano essere così vicini in questi luoghi. E’ impressionante  come tante persone, suore, medici, frati, non si facciano prendere dallo sconforto, non si arrendano, ma continuino a lavorare giorno dopo giorno.


Qui in Guinea Bissau il servizio sanitario ti garantisce un posto e una visita medica. Un posto ho detto, non un posto letto: se in una stanza ci sono due letti ma ci stanno magari 8 persone, quelle ci stanno appunto, accampate come meglio possono. E una visita dicevo: esami, medicine, per non parlare delle operazioni, sono tutte prestazioni a pagamento nel senso che spesso il servizio sanitario non te li fornisce proprio, devi procurarteli tu. Ma anche avendo i soldi, se chiedi un sonnifero nella migliore farmacia di Bissau, può capitarti che ti diano un antidepressivo. Alcune malattie, come i tumori, sono di fatto incurabili perché mancano sia le medicine che i medici che sappiano curarle. L’ospedale cattolico di Cumura invece è aperto a tutti, totalmente gratuito e cura, a differenza degli altri ospedali, soprattutto le malattie più gravi come la tubercolosi, l’aids e la lebbra.

 

La lebbra, a differenza di quanto generalmente si crede, è una malattia non infettiva che colpisce le persone malnutrite e che vivono in condizioni igieniche precarie. I primi sintomi sono delle striature bianche sulle guance, sulle braccia e la perdita di sensibilità alle mani e ai piedi. Se presa in tempo si guarisce senza complicazioni.

 

Ma gli africani non si fidano dei bianchi quando gli dicono di andare con loro negli ospedali. Gli anziani ricordano che quando erano piccoli gli anziani di allora gli dicevano che i bianchi erano cannibali (chi andava via con i bianchi non tornava più, quindi erano cannibali). Ci si cura allora dal kurandero, sorta di stregone che cura secondo le convinzioni popolari tradizionali imbevute di superstizioni e dai risultati praticamente nulli. Anche chi si fida della medicina occidentale comunque prima va dal kurandero, non sia mai che gli spiriti maligni se ne abbiano a male!

 

Chi è malato di lebbra è considerato inviso agli spiriti maligni, è considerato impuro. Se gli spiriti cattivi ti hanno colpito allora vuol dire che sei cattivo pure tu e quindi sei bandito e allontanato dal villaggio. Questo accade nei villaggi ma anche in città la mentalità è di rifiuto e di abbandono del malato che si vergogna e si nasconde. Spesso quindi il lebbroso lascia il villaggio e lentamente viene consumato dalla lebbra fino a morire in solitudine. Chi riesce ad arrivare all’ospedale di Cumura è invece fortunato: viene accolto, curato e guarisce. Anche guarito però a volte le piaghe lo marchiano a vita. La malattia viene fermata ma i danni alle mani, alle gambe, al viso sono indelebili e le ferite continuano ad aprirsi e infettarsi anche molto tempo dopo la guarigione dalla lebbra.

 

Il rientro nella società è così praticamente precluso e infatti molti restano nell’ospedale a lavorare nella falegnameria o a curare le aiuole. Un modo per rendersi utili e mantenere un minimo di rapporti sociali in una società che li rifiuta.


L’ospedale è pieno di persone, malati, infermiere, suore. Quel che mancano sono i medici. L’ospedale è retto da un medico portoghese, frate francescano: Frei Victor. Assieme a lui delle suore (italiane, portoghesi, brasiliane), infermieri della Guinea Bissau e i primi medici della Guinea Bissau. I medici del posto in realtà per la maggior parte lavorano in Brasile o in Europa. Qui invece guadagnano un miseria. Sono pochi quelli che decidono di restare.


La nostra visita inizia con un saluto a Frei Victor che, nonostante le tante persone che aspettano di essere visitate fuori dal suo ufficio, trova 5 minuti per salutare Don Ivo e… misurargli la pressione, non si sa mai dopo che ha preso la malaria per la terza volta!

 

Colpisce la calma delle persone in attesa. Non ci sono code e neanche numeri per la precedenza. Tanto fuori la vita è chiassosa, a volte caotica, tanto qui regna la calma, forse la rassegnazione in attesa di un aiuto. Sono i primi guineani che vedo da vicino. Sono persone sofferenti e come spesso mi capiterà in questo viaggio mi sento inadeguato.


Camminando sotto le tettoie dei padiglioni dell’ospedale incontriamo in una camera due anziani, con il cappello, come tutti gli anziani qui in Guinea Bissau. Sono seduti sulla sedia a rotelle con le gambe fasciate a coprire le piaghe della lebbra. Uno in particolare ha voglia di parlare e quando ci presentiamo, e capisce che siamo italiani, ci ringrazia perché la carrozzella su cui è seduto arriva dall’Italia.


Don Ivo, un medico guineano e l'anziano riconoscente con gli italiani.
Don Ivo, un medico guineano e l'anziano riconoscente con gli italiani.
I piedi dell'anziano quasi non ci sono più.
I piedi dell'anziano quasi non ci sono più.

Mentre usciamo dalla stanza e finiamo di salutare i due anziani si avvicina Paolo, un ragazzino di 14 anni con le dita dei piedi gonfie e deformi ma in fondo poca cosa rispetto alle piaghe che vedo nelle fotografie alle pareti e che immagino sotto le bende dei due anziani. Anche lui si ferma a salutare, ma soprattutto mi sembra a prendere un po’ d’affetto da due persone che hanno piacere a scambiare due parole con lui. Io in realtà, non conoscendo una parola di criolo, riesco a scambiare più due sorrisi che due parole, ma per un bambino che è solo da giorni probabilmente qualunque segno d’affetto è un grande dono. Mi spiace non poter fare molto per lui e adesso, mentre scrivo queste righe anche in suo ricordo, spero tanto che sia uscito dall’ospedale e sia tornato al suo villaggio.

 

 

Tra due padiglioni la tettoia si allarga a formare un’area di ricreazione con dei tavoli, delle panche e un televisore. Alle pareti foto di piaghe da lebbra. Sul momento mi colpiscono parecchio e onestamente evito di guardarle troppo per un senso di pudore e di rispetto. A posteriori mi sembra una scelta per lo meno curiosa mettere quelle foto anche dove i malati dovrebbero andare a distrarsi. Ma qui non ci sono posti dove potersi distrarre.


A una panca è seduta una signora anziana accudita da un’infermiera. E’ guarita dalla lebbra ma è ancora in cura per le piaghe la cui rimarginazione richiede tempo. La gamba destra è appoggiata a una specie di trespolo che l’aiuta a tenerla sollevata mentre l’infermiera pulisce le ferite ancora aperte.

 

I trespoli dove i malati appoggiano la gamba mentre vengono medicati. Ce ne sono parecchi lungo i corridoi dell'ospedale...
I trespoli dove i malati appoggiano la gamba mentre vengono medicati. Ce ne sono parecchi lungo i corridoi dell'ospedale...

 

Purtroppo, benché guarita, i piedi della signora sono oramai due moncherini deformi. Don Ivo si siede accanto alla signora per scambiare due chiacchiere; le chiede se posso fare una fotografia e avuto il consenso mi sposto per fotografare. Mettendomi di fronte mi rendo conto di cosa sta facendo l’infermiera. Non sta semplicemente pulendo le ferite ma con una lametta sta asportando tessuto morto da quel che rimane del piede. Scatto senza guardare solo perché oramai la signora si aspetta la fotografia, ma non avrei voluto farlo. Ho pensato molto se pubblicare o meno questa fotografia. Facendola vedere ad alcuni amici mi rendevo conto che non suscitava in loro l’impressione che faceva a me. E neanche la foto del “trespolo” suscitava particolare emozione mentre per me, che avevo visto usarlo, era una delle foto simbolo del mio viaggio. Spero quindi che pubblicando entrambe le foto e queste poche righe di riuscire a far capire un po’ di più cosa ho provato in quel momento.

 

La signora, guarita dalla lebbra, viene medicata da un'infermiera.
La signora, guarita dalla lebbra, viene medicata da un'infermiera.

 

Oltre al lebbrosario ho visitato il reparto, gestito dalle suore, dei bambini nati da madri malate di aids. Tutti i letti sono occupati da una mamma e da un bambino accucciato accanto a lei. In un letto i bambini sono due: i gemelli sono piuttosto frequenti in Guinea Bissau. C’è pure un bambino nato sabato, appena due giorni prima. La mamma non ha ancora scelto il suo nome.


Il bambino nato da madre sieropositiva da appena due giorni.
Il bambino nato da madre sieropositiva da appena due giorni.

 

Spesso le madri non sanno di avere l’aids, a volte neanche di essere incinta. Stando poco bene vanno a farsi visitare e, scoperto che hanno l’aids, le suore le accolgono nella loro struttura. Almeno fino al parto e finché ce n’è bisogno per salvare il bambino. Nell'ospedale cercano di curare la madre e di evitare il contagio al bambino. Fino a sei mesi la madre può allattare senza pericolo; dopo deve interrompere altrimenti il rischio contagio è elevatissimo. Ma con tanta povertà come si fa a rinunciare al latte? Per dare cosa poi al suo posto? Il riso, ma un bambino così piccolo non può mangiare il riso e infatti durante lo svezzamento si hanno i casi più gravi di malnutrizione.


All’ospedale di Cumura è annesso anche un asilo e i bambini, se non sono a posto con le vaccinazioni, vengono vaccinati. Una decina di bambini seduti in fila sotto una tettoia sono in attesa di essere visitati. 

 

La Dott. Natalia Cristina Oliveira, brasiliana, vista un piccolo paziente.
La Dott. Natalia Cristina Oliveira, brasiliana, vista un piccolo paziente.

 

Tra questi c’è pure una bambina con una cicatrice sulla nuca da orecchio a orecchio, causata da un mobile cadutole sulla testa. Per fortuna quest’estate è stata operata in Italia e a parte la cicatrice adesso l’incidente è solo un brutto ricordo. Proviamo a entrare ma c’è tantissima gente. La responsabile, Suor Valeria, è superindaffarata ma, come all’inizio Frei Victor, anche lei trova 5 minuti per un saluto a Don Ivo. Vorremmo consegnarle delle confezioni di sapone liquido. Le si illuminano gli occhi: serve come il pane in un posto come quello ma adesso è troppo impegnata e ci chiede di portarlo alla casa delle suore subito fuori il complesso dell’ospedale.

 

La chiesa dell'ospedale, dietro il pickup di Don Ivo.
La chiesa dell'ospedale, dietro il pickup di Don Ivo.

 

Andando via vedo dietro il pickup un vialetto che conduce alla chiesa abbandonata e fatiscente dell’ospedale. “Come mai in quello stato?” mi chiedo. “Prima abbiamo da curare i malati, poi avremo modo di pensare alla chiesa” mi rispondono. La chiesa adesso è utilizzata all’occorrenza come obitorio e deposito di letti rotti, giunti già rotti tra gli aiuti umanitari. D’accordo che in Africa manca tutto ma un letto rotto è un letto rotto anche in Africa! Sul tetto riposano dei pipistrelli, molto utili contro le zanzare. 

 

La facciata della chiesa.
La facciata della chiesa.
L'interno della chiesa, si intuisce ancora il crocefisso nell'abside. Serve da deposito dei letti rotti giunti dall'Europa e da obitorio. In primo piano i banchi dove poggiare i morti.
L'interno della chiesa, si intuisce ancora il crocefisso nell'abside. Serve da deposito dei letti rotti giunti dall'Europa e da obitorio. In primo piano i banchi dove poggiare i morti.
Il tetto della chiesa è il rifugio preferito dei pipistrelli.
Il tetto della chiesa è il rifugio preferito dei pipistrelli.
L'ospedale visto dalla chiesa.
L'ospedale visto dalla chiesa.

 

Uscendo dall’ospedale chiedo a Don Ivo di fermarsi un secondo in modo da poter fotografare l’ingresso dell’ospedale. Mentre scatto la mia fotografia Don Ivo saluta le persone sedute sotto un albero in attesa di tornare a casa. Chiede come stanno, che in Guinea fa parte integrante del saluto. E’ in quel momento che ci accorgiamo di Clara, una bambina di 5 anni, timidissima, forse anche perché non parla neanche il criolo, ma solo il dialetto della sua tribù.

 

Sulla fronte ha delle piccole escoriazioni bianche. I primissimi segni della lebbra. La mamma ci fa notare segni analoghi sulle spalle e sulle gambe. Clara è dolcissima e timidissima. La madre e la nonna, che l’hanno accompagnata in ospedale, sono affettuosissime con lei. Ci raccontano che sono state dal dottore e ci fanno vedere le medicine che hanno preso per Clara.


Clara è stata portata in ospedale dalla mamma subito, ai primi sintomi della malaria. Non si vergogna di sua figlia la mamma di Clara. Ci fa vedere le prime piaghe, le hanno spiegato come curarle e sicuramente lo farà. A Clara molto probabilmente non rimarrà alcun segno di questa terribile malattia, guarirà completamente grazie a sua mamma che è andata contro la cultura dominante perché si è fidata dei medici di Cumura. Qualcosa forse sta cambiando in Guinea Bissau.

 

Ingresso dell'ospedale di Cumura.
Ingresso dell'ospedale di Cumura.
Strada di accesso all'ospedale di Cumura. Sulla destra il gruppo di persone tra cui abbiamo incontrato Clara e la sua mamma.
Strada di accesso all'ospedale di Cumura. Sulla destra il gruppo di persone tra cui abbiamo incontrato Clara e la sua mamma.

 

Proseguiamo, colpiti da quest’ultimo incontro e andiamo alla casa delle suore dove consegniamo le scatole di sapone liquido promesse a suor Valeria. Il tempo di scattare una foto ricordo e compare pure Suor Valeria ad offrirci dell’orzata, un mandarino brasiliano (ha l’aspetto di un limone verde) e un mango da mangiare dopo.

 

La casa delle suore dell'ospedale di Cumura.
La casa delle suore dell'ospedale di Cumura.
La pianta di mango.
La pianta di mango.
Avvoltoio appollaiato tra le palme. Animali molto utili perché puliscono le strade di tutti i rifiuti.
Avvoltoio appollaiato tra le palme. Animali molto utili perché puliscono le strade di tutti i rifiuti.
La consegna del primo pacco alle suore dell'ospedale di Cumura.
La consegna del primo pacco alle suore dell'ospedale di Cumura.

 

La tappa successiva della nostra mattinata è la clinica pediatrica di Bor. Il pomeriggio in realtà la clinica è aperta anche agli adulti. Una cura e un po’ di conforto non si negano a nessuno in questi ospedali, soprattutto adesso che alcuni medici sono guineani e le persone si fidano di più.


Per gli interventi chirurgici invece si attende un’equipe da Brescia che viene qui ogni tre mesi circa per fare le operazioni necessarie nella sala operatoria della clinica. Il bello di questa clinica è che è il frutto della cooperazione di più onlus. La clinica nasce infatti su ispirazione di Padre Ermanno Battisti, missionario del P.I.M.E. Ma il contributo principale che ha fatto crescere la clinica è venuto dai genitori di Anna, una ragazza che si stava laureando in legge e voleva venire a lavorare in Guinea Bissau. E’ morta prima di realizzare il suo sogno e lo hanno realizzato per lei i suoi genitori, assieme ad alcuni amici. Le altre onlus si sono unite poco dopo, poco per volta, portando a realizzare un centro ospedaliero che è un punto di riferimento per Bissau.

 

Girando per i corridoi si vedono bambini ovunque. Siamo a ridosso del pranzo, per fortuna ho visto bambini gioiosi, infermieri, medici, inservienti tutti impegnati nel loro lavoro. Sembra più una scuola in ricreazione che un ospedale. Non ho incontrato bimbi gravi, ho l’illusione che non ce ne fossero.


Rientriamo per pranzo in curia dove faccio la conoscenza di Padre Davide, che si cura della Radio diocesana, Radio Sol Mansi, Padre Giancarlo, economo, Josè Carlos, un volontario portoghese, Iolanda, responsabile delle pulizie e soprattutto Segunda, la cuoca!

 

Gli ospedali di Cumura e Bor
Gli ospedali di Cumura e Bor

Pomeriggio in centro a Bissau

 

Avvicinandoci al centro di Bissau percorriamo la strada a 3 corsie appena inaugurata provando di persona il traffico congestionato di Bissau (i taxi continuano a fermarsi in prima e seconda fila per far scendere o salire i passeggeri) e l’assurdità dei semafori, installati anche in una rotonda, che nessuno ha ancora capito bene come funzionano.


Lungo la strada poi è una fila interminabile di negozi e venditori che dispongono la loro mercanzia sul marciapiede: vendono di tutto, per lo più roba cinese o del Portogallo ma già di qualità superiore rispetto ai banchetti di stamattina verso Cumura. Appollaiati su delle carriole dei giovani che si offrono di portarti qualunque cosa compri e dove vuoi. Dietro la selva di negozi e banchetti si apre lo sterminato mercato di Bandim. Poco raccomandabile avventurarvisi, soprattutto per i bianchi.

“La povertà porta altra povertà” dice Don Ivo non riferendosi solo alla povertà materiale.

 

Sarebbe da fotografare quell’addensato di giovani impegnati in mille traffici (sono tutti giovani in Guinea Bissau dove l’aspettativa media di vita si ferma a 41 anni) ma Don Ivo suggerisce di non filmare temendo reazioni indesiderate.

 

Proseguendo passiamo di fronte la sede attuale del Parlamento e attraversiamo la via dove si concentrano le abitazioni di politici, funzionari e le sedi delle ambasciate, le poche che ci sono. Infatti chi viene in Guinea Bissau con l’incertezza politica che c’è? La case sono in muratura, più belle della media fatiscente e diroccata vista avvicinandomi al centro, comunque sempre nulla di che rispetto agli standard occidentali.

 

E anche nella via più esclusiva di Bissau in ogni caso la corrente arriva solo con i gruppi elettrogeni (magari per 24 ore invece che razionata come in curia) in quanto non c’è una centrale elettrica in tutto il Paese.

 

Finisce così la nuova strada e si entra in Bissau centro. La strada è sempre asfaltata ma l’asfalto sembra qualcosa di giustapposto, di estraneo a tutto il resto e ritorna terra nelle vie laterali. Le strade asfaltate sono pochissime, e comunque si tratta sempre soltanto di una striscia sottile di asfalto appoggiata al centro della strada, mangiata dalle buche e dalla polvere rossa che colora tutto: i marciapiedi, i piedi delle persone, i muri delle case. Le case sono tutte fatiscenti e sopravvivono all’incuria. Normale in un paese uscito da poco dalla guerra civile, se si può parlare di normalità.

 

Anche con il pickup  di Don Ivo si risale a fatica su questa striscia di asfalto per giungere su un’altura appena accennata dove una grossa rotonda, con in mezzo un giardino e una torre-obelisco in stile sovietico, è la piazza principale di Bissau.

 

Appena imboccata la rotonda, a destra, c’è il bar principale di Bissau. A sinistra l’ex palazzo presidenziale, ed ex casa colonica, lasciata in stato d’abbandono con il tetto sfondato dalle bombe e le pareti crivellate di colpi. Esattamente come l’hanno ridotta i bombardamenti della guerra civile del 1999: simbolo e monito per tutti i cittadini Guineani contro la guerra.

 

Facciamo poi una sosta al porto dove sta per chiudersi il mercato del pesce, altra occasione per vendere non solo pesce ma anche galline, maialini e le solite 1000 cianfrusaglie dall’utilità improbabile per un europeo. Il tutto infestato dal fetore nauseabondo del porto.

 

Mentre parcheggiamo un ragazzo, seduto lì vicino ad aspettare non si sa che cosa, dice a Don Ivo: “Padrone, attento che qui passano dei camion.”

Don Ivo risponde: “Io sono padrone solo della mia vita e di nient’altro. E tu sei padrone della tua vita.”

“Si, ma tu hai la macchina, hai i soldi e per questo sei un Padrone.”

“E’ vero, ho la macchina” dice Don Ivo, “ma non ce l’ho per arricchirmi. Ce l’ho per aiutare chi ha bisogno a Bigene, dove sono parroco. Senza macchina come potrei raggiungere tutta la mia gente? Come potrei portare chi sta male in ospedale?”

 

Il ragazzo sorride, sembra senza ironia, forse ha riconosciuto in Don Ivo un amico e non un padrone. I bianchi in Guinea Bissau sono chiamati Padroni. E in criolo uomo si dice pekadur. Come i colonizzatori chiamavano gli uomini guineani: peccatori. Abbiamo molto da farci perdonare da questo popolo…

 

Proseguiamo a piedi lungo il molo dove le bancarelle stanno oramai raccogliendo le loro mercanzie: la giornata è quasi finita. Dall’altra parte del porto una grossa nave portacontainer è ormeggiata con il suo carico. Lungo il molo sono attraccate per lo più barche in legno scavate nei tronchi con piccoli motori fuoribordo. Le barche più grosse sono rare e sono così malconce che non si capisce se siano in servizio o siano relitti abbandonati a marcire nel porto. La pesca in realtà è saldamente in mano ai cinesi e anche se un guineano volesse entrare nel mercato del pesce avrebbe come minimo il problema di dove conservare il pescato senza elettricità. I cinesi hanno risolto alla radice il problema con enormi pescherecci dotati di celle frigorifere e i piccoli pescatori guineani non saranno mai una minaccia per loro.

 

Il centro di Bissau. Praticamente tutte le strade sono sterrate e solo le principali sono asfaltate
Il centro di Bissau. Praticamente tutte le strade sono sterrate e solo le principali sono asfaltate
Porto di Bigene visto da satellite (Google Earth). In cima al molo, verso il basso la "flotta" militare e verso l'alto il relitto di una barca affiora dall'acqua.
Porto di Bigene visto da satellite (Google Earth). In cima al molo, verso il basso la "flotta" militare e verso l'alto il relitto di una barca affiora dall'acqua.

In cima al molo, sulla destra, è ormeggiata l’intera flotta militare della Guinea Bissau. Due navi, stile vedette della nostra guardia costiera, e tre gommoni. Tutte rotte o senza benzina. Quindi di fatto inutilizzabili. Facile allora capire perché i trafficanti di droga hanno scelto la Guinea Bissau come hub internazionale per i loro traffici di morte verso l’Europa.


E così le gloriose navi della marina militare sono destinate ad arrugginire e affondare come il relitto arrugginito che si vede pochi metri più in là dove un pescatore con un coltello sta pulendo i piccoli pesci appena pescati e allineati direttamente a terra.


Il mercato sta oramai chiudendo e proseguiamo la nostra visita ai monumenti più significativi della Guinea Bissau. Come la Cattedrale, un edificio relativamente recente, dove in una cappella sulla destra c’è la tomba di Mons. Ferrazzetta. Le finestre a mosaico, rappresentanti gli evangelisti e i santi, sono tutte rotte, soprattutto nella parte bassa (colpite con delle pietre?). E così pure sono rotte le mani di una piccola statua di San Francesco, vicino l’altare. Il parroco, Padre Michael, italo americano, ha fatto disporre dei fiori per nascondere la mutilazione della statua. Dietro la Cattedrale c’è l’oratorio, incompiuto. Con le colonne in cemento e i mattoni d’argilla alternati a spazi vuoti da cui si intravede l’enorme spazio vuoto interno, sembra un capannone dismesso delle nostre periferie del sud Italia. Purtroppo mancano i fondi per completarlo e ci sono altre priorità a cui rispondere con i pochi fondi a disposizione della curia.

 

La Cattedrale di Bissau il giorno dell'ordinazione del Vescovo vicario Don Josè (foto di Giusy di Girolamo)
La Cattedrale di Bissau il giorno dell'ordinazione del Vescovo vicario Don Josè (foto di Giusy di Girolamo)

Proprio di fronte alla cattedrale c’è la sede dell’ufficio postale. In realtà non è solo la sede ma è anche l’unico sportello delle poste: in tutto il Paese. In tutta la Guinea Bissau, se vuoi spedire una lettera, devi venire qui. E se la devi ricevere, sempre qui devi venire. Non ci sono postini. Le banche invece stanno crescendo. Fino a 3 anni fa c’erano gli sportelli di una sola banca. Adesso le banche tra cui scegliere sono 3.

 

Nel nostro giro per Bissau vediamo anche l’ospedale nazionale, un complesso di padiglioni bassi a due piani dipinti di bianco in alto e verde in basso. Fu costruito dai portoghesi nel periodo coloniale e nel suo giardino sono pure parcheggiate 3 ambulanze.

 

Infine un giro per negozi e “centri commerciali” più “in” della Guinea Bissau. Peggio delle nostre drogherie in realtà. Vendono merce d’importazione come per esempio una caffettiera a 30.000 franchi (circa 45 euro) o un TV LCD da 32” a 1.345.000 franchi (poco più di 2000 euro). Uno stipendio medio in Guinea Bissau si aggira tra i 30.000 e i 40.000 franchi al mese … 1 euro vale 655,597 franchi e il cambio è fisso, politico: puoi cambiare euro in franchi ma è difficile fare l’opposto.

 

C’è pure il negozio “degli italiani” gestito in realtà da un portoghese e da sua moglie, ucraina. E’ detto “degli italiani” perché vende prodotti italiani, a prezzi circa doppi rispetto all’Italia: pasta Barilla (1500 franchi, 2,3 euro) sugo Star e Nutella (3000 franchi, 4,6 euro). Disposti ognuno sugli scaffali come un Iphone o un Ipad in un Apple Store.

 

Mentre cammini per strada poi trovi chi ti vuol vendere schede telefoniche, o della frutta, o cambiare moneta in nero. Poi se sei bianco sei visto come il pollo da spennare e i prezzi aumentano di conseguenza ovviamente.

 

Rientriamo in curia, facendo a ritroso la strada a 3 corsie fatta all’andata ed evitando di investire i pedoni che passano comunque quando sono agli incroci, sia col verde che col rosso. Perché così hanno fatto fino a pochi giorni prima. Questi semafori sono proprio un problema tanto che ne parlano al telegiornale stasera con tanto di interviste e servizio filmato!

 

La sera dopo cena e prima che stacchino il generatore ci si collega ad internet. Su Facebook racconto di Clara ma i tempi di load delle pagine è biblico!

 

Please wait! L'accesso a internet è moooolto lento e non è certo che se lo possono permettere tutti.
Please wait! L'accesso a internet è moooolto lento e non è certo che se lo possono permettere tutti.

Si va a letto, dopo una giornata intensa di emozioni. Ma non dimentico, prima di coricarmi, di controllare bene lo stato delle zanzariere e nonostante il caldo afoso tiro per bene le tende di fronte alle finestre. La prudenza non è mai troppa...

 

 

 

"Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio."

 

 

 

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