"L'aurora inonda il cielo
di una festa di luce
e riveste la terra
di meraviglia nuova."
Anche questa notte è stata una notte particolare ma senza la poesia della notte precedente. Canti e musiche sono proseguiti tutta la notte ma questa volta non si sono accontentati dei tradizionali tamburi. Una tastiera elettrica, collegata sicuramente a un generatore e a degli altoparlanti, ha fatto da sfondo musicale a tutta la notte. I motivi erano però sempre nella tradizione africana: ritornelli e strofe sempre uguali, ripetuti all’infinito, con tonalità prima basse e poi sempre più alte, per poi ridiscendere lentamente, e quindi risalire, in un lento moto continuo, come una marea che si è fermata solo all’alba. Ho provato a registrare il sonoro ma i canti erano lontani e riascoltando la registrazione si sentivano solo i grilli che, imperterriti, hanno cantato anche loro tutta la notte incuranti della festa degli uomini.
Stamattina dopo colazione Don Ivo mi regala un CD di canti religiosi guineani. Nonostante la notte appena passata, siete liberi di non crederci, ma è un regalo che apprezzo e mi accompagnerà nei mesi successivi ricordandomi questi giorni.
Come programmato partiamo per visitare i tre villaggi vicini a Bigene: Ganturè Porto, sulle sponde del Rio Cacheu, Nhanea e Benhif.
L’intenzione è di non fare tardi per poter vedere i festeggiamenti conclusivi del Fanado. Ci accompagna Alfredo, il marito di Neia, la domestica che aiuta Don Ivo. Alfredo è professore della scuola pubblica di Bigene e che per arrotondare lo stipendio fa anche il guardiano della missione. Non è mai successo niente di spiacevole, ma in missioni vicine sì. Poi siamo vicini al Senegal e alcuni briganti nei mesi scorsi hanno approfittato dello scarso controllo di queste terre di confine per fare razzie in alcuni villaggi. Quindi la prudenza non è mai troppa.
Imboccando la strada per Ganturè c'è un crocicchio di uomini e alcuni ragazzi impegnati a giocare a dama. Un uomo sta vendendo del pesce appena pescato sul Rio Cacheu. E’ un tipo simpatico che ha voglia di parlare. Non mi sembra che abbia l’aria del pescatore e infatti lo rivedrò nei prossimi giorni che vende tutt’altro ma ne parlerò quando lo rivedremo. Don Ivo scambia quattro chiacchiere anche con gli altri uomini e ne invita uno ad accompagnarci nel nostro giro.
Siamo così in quattro. Alfredo è sicuramente utile per un miglior contatto con i capi villaggio che incontreremo. Infatti Alfredo fa anche da catechista in questi villaggi. L'altro uomo può essere molto utile nel caso avessimo problemi con l'auto in quanto il sentiero che dobbiamo fare non è dei più agevoli neanche da queste parti.
Uscendo da Bigene passiamo di fronte la casa di Alfredo e sulla soglia c’è sua figlia. E’ la bambina triste di cui ho parlato due giorni fa nel racconto della visita alla scuola della missione. E’ una bambina che da piccola ha molto sofferto per una malattia e la sofferenza l’ha talmente segnata che adesso non sorride mai. Puoi fare quello che vuoi ma ti guarda sempre con la stessa espressione seria. Però quando vede passare suo papà in macchina si illumina in un sorriso bellissimo e agita felice la manina come tutti i bambini. Suo papà riesce a farla sorridere! Normalmente in Guinea Bissau il padre si interessa poco dei propri figli, al massimo ai figli ci pensa la madre. Questo sorriso che unisce una bambina al suo papà è proprio bello! E mi fa pensare che qualcosa sta cambiando in Guinea Bissau…
Allontanandoci da Bigene passiamo di fronte ad un edificio abbandonato del periodo coloniale portoghese. Sulla parete si riconosce ancora il simbolo del Portogallo e la data sbiadita del 1958. Era il magazzino destinato alla raccolta del mancara, le arachidi.
Ma come tutte le cose dei portoghesi è in stato di abbandono totale. Poco oltre c’è anche la vecchia sede della centrale elettrica, ovvero un edificio con una grossa stanza che ospita il vecchio generatore. Ma proprio perché vecchio ha sempre qualche problema e non è mai in funzione. O perché guasto o perché mancano i soldi per la benzina. Ma stamattina ci sono delle persone che armeggiano dentro l'edificio, chissà.
Proseguiamo e ci lasciamo finalmente alle spalle le ultime case inoltrandoci nella vegetazione lussureggiante che circonda Bigene. Il sentiero mano a mano che proseguiamo si fa sempre più stretto e in alcuni punti ha buche talmente profonde che Don Ivo è costretto a scendere per controllare se possiamo veramente passare e dove esattamente. Sono infatti da evitare le buche più profonde, che potrebbero bloccarci, ma anche gli spuntoni di rami e tronchi che potrebbero squarciare le gomme.
Proseguendo sempre con la massima cautela incontriamo ogni tanto alcune persone, a piedi ovviamente. A un certo punto incontriamo pure due pescatori in bicicletta. Il più giovane porta dietro una scatola di polistirolo piena di pesci appena pescati e ancora boccheggianti; l'altro porta con sé una piccola bilancia. Stanno portando il pesce a Bigene per venderlo. Don Ivo acquista due pesci da due chili l'uno per un totale di 3000 franchi (4,6 euro). Alfredo strappa uno stelo d'erba e con movimenti rapidi ed esperti lo pulisce delle foglie in modo che facendolo passare per le branche e le bocche lega tra loro i due pesci. Li lasciamo ai pescatori affinché li portino a Neia in missione.
Proseguiamo e arriviamo a Ganturè Porto, o Mastru, il suo vecchio nome, come ci dirà il capo villaggio. Sono appena 2,8km da Bigene ma è stato parecchio impegnativo arrivare qui. Si capisce allora come mai in questo villaggio, nonostante sia vicino al fiume, vivano solo 72 persone. In tutto il mondo i porti sono fonte di ricchezza ma non da queste parti, ci fa notare amaramente il giovane capo villaggio. Assieme a lui ci accoglie l'anziano del villaggio, memoria storica della sua gente. Ci chiedono una mano a migliorare le condizioni della strada. La loro preoccupazione non è tanto il commercio ma l’isolamento del villaggio. Se qualcuno si sente male è difficile portarlo a Bigene: l’ambulanza non riesce a venire fin qui con una strada in queste condizioni. Don Ivo chiede di quantificare lo sforzo necessario in uomini e giornate di lavoro e si impegna ad interessarsi per vedere di trovare una soluzione. Pochi giorni dopo la mia partenza dalla Guinea Bissau i lavori per sistemare la strada inizieranno per fortuna.
Don Ivo, il capo villaggio e l’anziano scambiano quattro chiacchiere, cementano un rapporto, una stima e una fiducia reciproca tra persone interessate al bene della loro terra. Prima di andar via ci invitano a visitare il porto e un pezzo della storia della Guinea Bissau. Lungo il sentiero incontriamo gli immancabili ruderi del periodo coloniale, c’è pure uno spiazzo dove ci dicono che una volta atterravano gli elicotteri. Ad un certo punto deviamo dal sentiero e ci inoltriamo nel mato, nel bosco.
L'anziano del villaggio ci racconta che durante la guerra di indipendenza della Guinea Bissau, il 23 gennaio 1973 (e coincidenza vuole che mentre rivedo queste note per pubblicarle sia il 23 gennaio 2012…) a Farim, 50 km più a est da qui, lungo il Rio Cacheu, fu uccisa Titina Silla, guerrigliera di appena 30 anni ma che, nonostante la sua giovane età, era già uno dei capi carismatici del PAIGC (Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde). Fondatore, capo e guida del PAIGC era Amilcar Cabral, considerato “Padre della Patria” in Guinea Bissau. Titina era una dei suoi più stretti collaboratori. Il 20 gennaio 1973 Amilcar fu assassinato da alcuni membri del suo stesso partito. Appena 3 giorni dopo anche Titina, insieme ad altri guerriglieri, fu assassinata a Farim dai soldati portoghesi. Ultimi colpi di coda di un regime brutale perché, anche grazie al sacrificio di Amilcar Cabral e Titina, il 24 settembre 1973 la Guinea Bissau sarà uno stato libero.
Da Farim i corpi furono gettati nel fiume e il corpo di Titina insieme a quello di altri 2 guerriglieri fu trasportato dalla corrente fin qui, a Ganturè. L'anziano del villaggio ci racconta che ritrovò lui i corpi, riconobbe Titina e le diede sepoltura insieme agli altri due guerriglieri qui vicino nel bosco.
Noi ci stiamo recando proprio nel posto in cui Titina è stata sepolta. La vegetazione copre tutto ma tre ceppi di legno, piantati in corrispondenza dei capi delle salme, segnano dove sono le tombe. L’anziano si guarda intorno per individuare il posto esatto della sepoltura e degli uomini con il machete tagliano l’erba dove l’anziano indica loro finché non individuiamo i tre ceppi. Gli uomini che sono con noi ripuliscono l’area e adesso le tombe sono sgombre dall’erba alta. Don Ivo propone di recitare una preghiera e tutti insieme, cristiani e musulmani, recitiamo il Padre Nostro in memoria di questi martiri della Guinea Bissau.
In memoria di Titina Sila il 23 gennaio in Guinea Bissau è la Festa Nazionale delle Donne.
Ritorniamo sul sentiero e giungiamo così al porto: tra le mangrovie (il Rio Cacheu è in realtà un fiume di acqua salata dell’oceano) si apre una piccola spiaggia, il porto appunto, dove sono ormeggiate alcune canoe e deposte alcune reti con le quali probabilmente sono stati pescati i pesci che abbiamo acquistato stamattina. In questo momento c’è l'alta marea e non si vedono i coccodrilli che nei momenti di bassa marea prendono il sole sulle secche del fiume.
Torniamo indietro, circondati sempre da una natura spettacolare, e lasciando Ganturè incontriamo i bambini del villaggio che giocano con i copertoni delle bici che fanno rotolare per le strade polverose del villaggio.
Proseguiamo per il nostro viaggio attraverso un sentiero sempre più stretto dove il pickup fa una grossa fatica a passare. Ad un certo punto il sentiero non si vede neanche più, si intuisce soltanto in mezzo alla vegetazione sempre più lussureggiante, e meno male che c'è Alfredo che ci assicura che la strada è quella giusta.
E in effetti dopo 900 metri arriviamo al villaggio di Nhanea, 80 abitanti in poche case sparse nel bosco. Incontriamo e salutiamo il capo villaggio informandoci degli abitanti e delle loro condizioni di vita. Don Ivo parla con il capo villaggio cercando di creare quella confidenza necessaria per instaurare un rapporto duraturo. Nel frattempo alcune donne continuano i loro lavori: chi prepara da mangiare, chi lava il suo bambino (una ragazza giovanissima e bellissima), chi attinge l’acqua dall’unico pozzo del villaggio: un buco nel terreno segnalato da un vecchio barile arrugginito.
Come spesso mi capita di osservare in questo viaggio, mi accorgo che ogni villaggio è povero da queste parti, eppure è sempre una povertà diversa. Ogni villaggio è sempre un po’ più povero del precedente, te ne accorgi da piccole cose, come il pozzo per esempio qui a Nhanea. Eppure le persone mantengono sempre la loro dignità, conducono la loro vita piena di doveri, non hanno il tempo di lamentarsi, devono procurasi di che vivere, curarsi dei bambini e degli anziani, perché questa è la vita. In questi villaggi i problemi che ci affliggono in Italia sono veramente poca cosa.
Ripartiamo verso il terzo villaggio, Benhif, il più grande visto oggi: 264 abitanti, una moschea e una scuola con le classi dalla prima alla quarta. Ma la cosa spettacolare di questo villaggio è lo spiazzo centrale dove oltre ai soliti manghi sorge un maestoso albero di polon.
Mentre aspettiamo di incontrare il capo villaggio si avvicina zoppicando uno degli anziani che ci saluta: “Bon dia, kuma?” “N’sta ben”. Il saluto in Guinea Bissau non è un saluto completo se non ci si informa della salute dell’altro. La risposta è immancabilmente “N’ sta ben”, io sto bene, anche se non si sta bene affatto come appunto questo anziano che dopo il saluto racconta dei suoi acciacchi a Don Ivo.
Dopo quest’ultimo incontro rientriamo a Bigene e davanti l'ingresso della missione incontriamo dei bambini che stanno scappando di corsa. Scappano da un canguran: uno spirito che protegge i ragazzi che fanno il fanado dagli altri bambini e dalle donne che non possono avvicinarsi a loro. Lo spirito del canguran è impersonato da un uomo rivestito da capo a piedi da strisce di tessuto rosso e con in mano due machete con cui rincorre e minaccia i bambini.
I festeggiamenti del fanado sono in pieno svolgimento, si sente pure la musica che questa notte ci ha fatto dormire poco. Ci avviciniamo allo spiazzo dove siamo stati ieri sera e incontriamo delle donne che stanno danzando. Don Ivo accenna anche lui qualche passo, mentre io, più vergognoso, rimango in disparte.
Vediamo anche le casse che per tutta la notte hanno sparato musica a tutto volume. Oltre alle donne ci sono pure degli uomini travestiti da donna tra cui Ndautarin, professore della missione! Ndautarin ci spiega che i ragazzi usciranno dal fanado più tardi, nel pomeriggio.
Per adesso quindi andiamo a pranzo e rientrando compriamo delle banane da una anziana, che non parla neanche criolo, e vende le sue banane esponendole su una stuoia sotto un albero.
Neia a pranzo ha cucinato il pesce e il riso con il mancara, una salsa a base di arachidi tipica della zona e molto buona.
Come promesso nel pomeriggio torniamo nello spiazzo che sembra essere il cuore dei festeggiamenti. La musica non si ferma mai e ci sono un sacco di bambini in attesa. Mentre aspettiamo anche noi passano e ci salutano dei senegalesi vestiti con delle lunghe tuniche. Il più anziano ha in mano il rosario dei musulmani ma al collo porta anche i tipici amuleti africani. Ci saluta con poca attenzione, quasi con indifferenza, soprattutto nei confronti di Don Ivo che probabilmente in quanto prete è percepito come elemento di disturbo. Sono sicuramente dei religiosi musulmani venuti a Bigene per partecipare alla festa. Forse secondo loro noi bianchi, Don Ivo soprattutto in quanto prete, siamo degli elementi estranei, non si spiega altrimenti il saluto freddo e sbrigativo che ci rivolgono e che se in Europa può essere la norma qui in Africa suona veramente strano. Un altro dei religiosi senegalesi dopo alcuni convenevoli chiede esplicitamente dei soldi a Don Ivo che in modo scherzoso, e facendo quasi finta di non capire, non asseconda.
Riflessione personale: essere visto come un bancomat è veramente fastidioso, soprattutto quando ti metti d’impegno per conoscere ed essere partecipe della realtà del posto. Quando ti chiedono solo dei soldi e basta ti senti rifiutato, è come se ti dicessero che di te non gli interessa nulla se non i soldi che hai nel portafogli. Ci sta, in fondo la loro realtà non è semplice da vivere, ma preferisco molto di più Clara, Maio, Alfredo, Neia, Joaquim, i bambini, i capo villaggio che ho incontrato in questi giorni e che non ti chiedono nulla se non come stai. A loro do il mio aiuto, che vuol dire anche aiuto economico, e soprattutto la mia “sympathia”.
Mentre aspettiamo arrivano i canguran ed inizia il fuggi fuggi dei bambini tra le capanne del villaggio. E sì perché i canguran in realtà sono 3, due ricoperti di strisce di tessuto rosso, come quello visto stamattina, e uno invece con un costume “antico”, tradizionale, ricavato da foglie e steli marroni essiccati e legati attorno a braccia e corpo a mascherare completamente la figura. Uno in particolare si avvicina a noi danzando e mostrando i machete con un fare finto minaccioso come si addice al suo ruolo di spirito difensore del fanado. Don Ivo prova a chiedergli se possiamo fotografarlo. Lui però non può parlare, è uno spirito, ma continuando a brandire i machete si avvicina a noi e ci sussurra senza farsi sentire da nessuno se non da noi: “Si padre”.
Presa un po’ di confidenza ci inoltriamo nel villaggio e siamo invitati a sederci vicino ad un gruppo di donne che ballano tra di loro. A un certo punto portano del riso in grandi ciotole da cui mangiano tutte insieme. Arriva anche un canguran e le donne allora fingono terrore buttandosi indietro verso gli alberi dove siamo seduti anche noi e siamo praticamente travolti dalle donne in “fuga”. Dovrebbero almeno fingere terrore e invece stanno tutte ridendo.
Anche i bambini si tengono a debita distanza dei canguran ma il divertimento è proprio quello di scappare quando si viene inseguiti.
Si avvicina a noi un anziano molto gentile a cui Don Ivo chiede del fanado. L'anziano ci invita alla capanna dei ragazzi e noi lo seguiamo. Poco prima abbiamo visto delle donne andarci, rigorosamente accompagnate da degli uomini, portando sulla testa delle ciotole piene di riso. Infatti le donne e i bambini non possono avvicinarsi ai bambini del fanado, ma se si deve fare la fatica di portare un peso allora le donne possono avvicinarsi. Anche se non da sole bensì accompagnate da un uomo che almeno così non fa nessuna fatica e la tradizione è rispettata. Anche noi avvicinandoci alla capanna del fanado troviamo la strada sbarrata da un canguran. L'anziano si avvicina, inizia una finta discussione con il canguran per salvaguardare la sacralità del fanado e alla fine otteniamo il permesso di passare.
Dopo poco arriviamo alla capanna: uno spiazzo tra gli alberi delimitato da dei teli in cui hanno vissuto nell'ultimo mese i bambini del fanado. La capanna adesso è piena di uomini e vediamo finalmente i bambini del fanado con delle braghe arancioni, a torso nudo e una fascia bianca in testa. Stanno mangiando il riso dalle ciotole portate dalle donne che abbiamo visto poco prima.
Tra gli uomini ci sono molti anziani di Bigene che invitano Don Ivo a partecipare alla preghiera conclusiva del fanado.
Finito il riso i ragazzi vengono raccolti in un angolo e segnati sulla fronte con del latte. Vengono quindi avvolti in delle coperte colorate a nascondere pure la testa. Forse, ma questa è una mia interpretazione, l’essere avvolti dalla coperte indica che al momento, fino alla conclusione del fanado, non sono ancora di questo mondo. Vengono quindi presi sulle spalle, o sospinti a piedi fuori dalla capanna, e accompagnati verso il villaggio. Nel frattempo la capanna viene smantellata e i teli bruciati.
La folla è sempre più rumorosa, i canguran sono circondati dalla folla che tiene in mano dei rami frondosi. Nel frattempo i bambini vengono fatti sedere, allineati su delle stuoie, di fronte alla moschea di Bigene. Dietro a loro si sistemano gli uomini che li hanno accompagnati e adesso si assicurano che non escano dalle coperte che li avvolgono. Gli anziani del villaggio, insieme al capo villaggio e ad alcuni giovani, iniziano a camminare in cerchio in senso anti-orario intorno ai bambini, sembra che recitino una preghiera.
A me e Don Ivo viene offerta una sedia per sedersi vicino a dove si svolge la cerimonia e questo probabilmente era il significato dell’invito alla preghiera rivolto prima dall’anziano.
Tutt’intorno si sono radunati gli abitanti del villaggio per seguire il rito. Alla fine si inginocchiano anche gli anziani che quindi si radunano intorno al capo villaggio. Ad ognuno viene distribuito un frutto di cola che viene donato anche a me e Don Ivo. Il frutto della cola viene normalmente mangiato dagli uomini e così non sentono più i morsi della fame, un po’ come gli indios del Sudamerica fanno con la coca sulle Ande.
Alla fine i bambini, sempre avvolti nelle coperte, vengono ripresi in spalla e portati verso le case del villaggio per continuare la festa. Solo più tardi, quando saranno dichiarati adulti, potranno liberarsi delle coperte.
Oramai però si sta facendo buio e con Don Ivo ci allontaniamo certi che sentiremo canti e balli fino all'alba.
Alle otto andiamo in chiesa per la recita del santo rosario ma non c'è nessuno. Tra il fanado, ed il fatto che le suore sono a Bissau, non è venuto nessuno. Dopo qualche minuto di preghiera personale richiudiamo la chiesa e rientriamo in missione. Attraversiamo la strada principale di Bigene che questa notte è illuminata da alcune fioche lampadine che penzolano da vecchi pali della luce in cemento armato. Oramai stanno in piedi più per scommessa che per altro con il cemento scrostato e i tondini di ferro a vista e arrugginiti.
Il generatore della centrale elettrica però questa sera è in funzione e Bigene è inondata da una tenue festa di luce.